La Napoli solidale, quella di cui si sono perse le tracce. Sono fortunato, sono nato e cresciuto in una Napoli ancora solidale, in un ambiente popolare, un caratteristico vicolo di Chiaia. Fino a pochi decenni fa, i vicoli di Napoli erano vere e proprie comunità a sé stanti, nel contesto cittadino.
Nel vicolo ci conoscevamo tutti e ci aiutavamo reciprocamente, nessuno si tirava indietro quando si trattava di dare una mano al vicino o alla vicina, ricordo mia madre che spesso si prendeva cura dei figli dei vicini quando scendevano per fare la spesa o altre commissioni che richiedevano tempo; lo stesso valeva al contrario, si cucinava per i propri figli e si dava da mangiare anche ai figli della vicina che si teneva in custodia, addirittura spesso si facevano addormentare tutti i bambini insieme.
Una sorta di solidarietà umile e umana. Il ballatoio diventava una casa unica, dove tutti si scambiavano qualcosa o si facevano dei favori, senza remore. E non parliamo della domenica, quando il vicolo si riempiva di odori di ragù, fritture di pesce, peperoni arrostiti, ti faceva venire fame già dal mattino. Ricordo la nostra prima colazione domenicale, non c’erano cornetti e brioches, ma la pizza fritta di Carmeniello giù al vicolo, una bontà. E quando arrivava l’ora di sedersi a tavola, iniziava anche lo scambio di pietanze con i vicini, le classiche frasi dette dalle nostre mamme: “Assaggiate questo piatto di pasta al forno, mangiatevi questa frittura di paranza” e così via.
Era sempre così. In estate, non mancava mai il vino con le pesche e i gusci di melone rosso. Il pranzo domenicale a casa mia iniziava dopo le 14 e ci alzavamo non prima delle 17,30. La domenica era anche un momento di aggregazione familiare, con tutti i figli seduti a tavola. E con il passare degli anni, si aggiungevano anche i fidanzati delle mie sorelle più grandi.
La domenica era sacra per le famiglie napoletane, sulla tavola non doveva mancare nulla. Il tutto finiva sempre con i dolci, indimenticabili le deliziose al cioccolato e le teste di moro di Franco Gaetano, la pasticceria di Via Mergellina, e se non c’erano dolci, mia madre, buonanima, ci faceva le graffette che ovviamente venivano distribuite anche ai vicini.
E il caffè era d’obbligo. E le sorelle più grandi aiutavano mamma in cucina a sistemare e lavare i piatti, momenti di pura aggregazione familiare e di confronto tra genitori e figli, si parlava e si discuteva, potenza della mancanza di tecnologia, oggi tutti persi con la testa e gli occhi sul telefonino, mancanza di dialogo, e si mangia alla svelta.
Quelli erano veri momenti di solidarietà, dove si diventava una famiglia unica, dove tutti si conoscevano e si rispettavano, dove i primi amici erano i bambini che abitavano nello stesso palazzo, sul ballatoio.
Vicoli costellati da panni stesi, profumo di bucato fresco, ognuno puliva e lavava fuori dalla propria abitazione, dando un senso di pulito alla strada, e le voci che si alternavano quando il tempo cambiava e cominciava a piovere, quelle voci che riempivano l’aria: “Ntunè, Ntunetta, portate dentro i panni, sta piovendo… signora Maria, tirate dentro i panni, il tempo si è guastato…” e così via. Confronto quella Napoli di allora con questa e ti accorgi di come si sia persa l’umiltà, di come le persone si siano imbarbarite, ormai non c’è rispetto per niente e nessuno, la solidarietà ha ceduto il posto alla prevaricazione e alla prepotenza dei nuovi soggetti.
Da piccoli giocavamo con le figurine, le palline di vetro o le catenelle di plastica, e le bambine giocavano con le bambole e le cucine, oggi ci si diverte con le pistole e con i coltelli, e più sei cattivo, più guadagni rispetto e incuti terrore. Non avrei mai immaginato che saremmo arrivati a questo, ed è quello che mi dispiace di più.