Napoli: una città che vive nel tempo e nell’oblio
Il tempo è un concetto astuto e punitivo. È un’esperienza così universalmente conosciuta che non è nemmeno necessario spiegarlo: a volte un’ora sembra un giorno, a volte viceversa. È tutto così relativo nel suo scorrere che non ha senso parlare di tempo al singolare. E poi c’è il tempo collettivo di una città, un esercizio ancora più incomprensibile. Impossibile da misurare, impensabile da spiegare. E in questo scorrere delle durate, Napoli ha il primato delle dimenticanze. Nel suo ritmo incostante, fa entrare gli strumenti musicali quasi sempre al momento sbagliato, come se fosse diretta da un direttore d’orchestra matto. Quando dovrebbe ricordare, dimentica. Quando sarebbe necessario cancellare, riporta alla mente. Le ferite della sua cronaca si rimarginano subito o restano aperte senza cicatrizzarsi.
Quanto tempo è passato dall’assassinio di Francesco Pio Maimone, il ragazzo di 18 anni ucciso solo perché voleva trascorrere una serata all’aperto agli chalet di Mergellina? E quanto tempo dalla morte di Giovanbattista Cutolo, ucciso a 24 anni dai colpi di pistola di un 16enne che ha confessato? Sono passati 165 giorni dalla morte di Francesco Pio e 47 dalla morte di Giogiò. Poco più di sei mesi nel primo caso, appena più di un mese nel secondo. Non preoccupatevi se le risposte dei lettori a queste domande sembrano esagerate: sono perfettamente in linea con quelle date da diverse persone a cui ho posto la stessa domanda nei giorni scorsi. Nella città senza trauma, ogni ferita sembra la più insopportabile, la più intollerabile. Ogni offesa alla vita onesta della comunità civile sembra la più inaccettabile. Ma proprio perché Napoli è una città senza trauma, non c’è in realtà nessuna violenza che possa davvero sconvolgerla.
Senza andare troppo indietro nel tempo, dal 1997 di Silvia Ruotolo, questa città ha detto “Mai più”. Poi nel 2000 è toccato a Gigi e Paolo, nel 2004 ad Annalisa Durante, nel 2009 a Petru Birladeanu, nel 2015 a Genny Cesarano, nel 2019 alla piccola Noemi. Ogni volta, Napoli è stata travolta da un’ondata di indignazione, rabbia, emozione e volontà di cambiamento. Attraverso le sue istituzioni statali, amministrative e politiche, ogni volta ha detto: “Basta, questa è l’ultima volta”. Ma poi ha lasciato che il tempo agisse con le sue truppe, che hanno cancellato ogni parola di redenzione pronunciata dopo quel sangue innocente versato. Non si sa cosa sia successo a quel capitale sociale, umano e civile straordinario che era presente ai funerali di Francesco Pio e Giò, a quelle migliaia di persone addolorate e sconvolte. Si sa solo che era lì, pronto a diventare qualcosa, ma è rimasto niente. Non è successo nulla di politico, niente di pratico, concreto o misurabile. A meno che non consideriamo validi i blitz con telecamere al seguito per sequestrare armi da fuoco arrugginite e qualche euro. Dopo un’onda emotiva per due giovani e innocenti morti, è seguito per l’ennesima volta un periodo di inazione nella volontà concreta di agire.
Tra queste due fasi, ci sono solo le solite singolarità o minoranze che occupano il campo vuoto. Insegnanti, preti e attivisti delle piccole parrocchie locali, operatori sociali, esponenti del terzo settore, gruppi di volontariato, associazioni che lavorano strada per strada, sotto il peso di enormi responsabilità, fatiche gigantesche e senza gratificazioni. Dall’altro lato, le attività culturali: concerti commemorativi, intitolazioni di aule, assegnazioni di borse di studio. Tutto questo rappresenta una sorta di testacoda del valore del trauma, un rovesciamento della sua stessa etimologia. In greco antico, trauma significava buco, strappo, scucitura. Ma Napoli ribalta sia il dizionario che la medicina. Respingerà ai margini la sua storia come nessun’altra città e vivrà in un eterno presente, né triste né felice, totalmente neutro e sempre pronto ad accogliere la prossima spallata, il prossimo ferito innocente, il prossimo morto. Sa come fare. È abituata alle lacrime, all’indignazione che dura meno di uno yogurt fuori dal frigorifero, alle parole che viaggiano con leggerezza e libertà.