Il Natale di una volta: il presepe fatto con amore e pazienza

In questi giorni che precedono il Natale, giorni pieni di incertezze e difficoltà, mi viene in mente il Natale di una volta. Mi tornano in mente i giorni che precedevano il Natale nella nostra casa di via Zara.

Mio padre iniziava i preparativi per il presepe. Dal mezzanino del terrazzo tirava giù gli scatoloni contenenti i pastori e il sughero, riposti con cura a gennaio. Ogni pastore era avvolto delicatamente in un pezzo di carta di giornale, per proteggerlo dagli urti. Nonostante ciò, molti pastori riemergevano danneggiati, monchi o decapitati.

Oggi quei pastori danneggiati sarebbero stati buttati via e sostituiti con altri nuovi. Ma un tempo la filosofia era diversa, non si buttava mai nulla. Anche Luciano De Crescenzo ricorda come sua madre conservasse tutto, anche le cose apparentemente inutili. Così scriveva in uno dei suoi libri: “Mia madre conservava tutto! Non buttava mai niente! Conservava anche uno spago corto che un altro avrebbe gettato via… Mamma no! Mamma lo metteva da parte e lo conservava”.

Forse l’esperienza della povertà aveva insegnato alle vecchie generazioni di italiani il rispetto per le cose, anche le più insignificanti. Così nella credenza della cucina c’era un cassetto destinato ad accogliere tutto ciò che non aveva un’utilità immediata.

Tornando ai miei pastori, nessuno veniva mai abbandonato. Una volta separati quelli integri da quelli danneggiati, mio padre si prendeva cura di questi ultimi e cercava di rimediare ai danni subiti. Utilizzava la colla di pesce, un collante ecologico che al giorno d’oggi forse nessuno conosce più.

La colla di pesce si presentava in tavolette simili a quelle del cioccolato. Per utilizzarla, occorreva scioglierla sul fuoco, mettendo le scaglie in barattoli di latta che avevano contenuto i pomodori pelati o la conserva. Questi barattoli erano stati conservati, come tante altre cose, come raccontava anche De Crescenzo.

Lo scioglimento della colla di pesce sul fuoco diffondeva in tutta la casa un odore terribile, alquanto nauseante. Ma nella mia memoria quell’odore è diventato un simbolo dei giorni che precedevano il Natale, un’alchimia della memoria.

Per incollare i pezzi, occorreva prelevare piccole porzioni di gelatina con un bastoncino di legno e applicarla alle parti da saldare. Ma bisognava aspettare che la gelatina si consolidasse di nuovo, il che non avveniva rapidamente. Bisognava tenere i due pezzi aderenti, evitando che si spostassero reciprocamente. Insomma, serviva molta pazienza!

Anche per sistemare i pastori sul sughero delle montagne bisognava fare attenzione. Le statuine erano prive di base e non si reggevano in piedi da sole. Quindi, una volta applicata la colla, bisognava puntellarle con degli stuzzicadenti. Le statuine erano di diverse dimensioni e venivano disposte in ordine di grandezza decrescente, dalla base dello scoglio alla sommità, per creare un effetto prospettico. Sulla montagna venivano anche posizionate numerose casette, fatte con cartoncino delle confezioni di medicinali e opportunamente dipinte.

Con la carta stagnola delle confezioni di cioccolato, religiosamente conservata, si creava il laghetto artificiale dove il pescatore lanciava la sua lenza. Talvolta, con la stessa stagnola, si creava il letto di un torrentello alimentato con acqua vera, prelevata dal clistere che normalmente era appeso in bagno. L’acqua veniva raccolta in una bacinella nascosta sotto il tavolino su cui poggiava tutta la struttura. I cespugli erano fatti con il muschio raccolto sui muri di tufo che costeggiavano i sentieri che da Poggioreale si arrampicavano sulla collina della Doganella.

Ma ciò che rendeva magico il nostro presepe era l’illuminazione. A quei tempi non c’erano i moderni led e si utilizzavano delle piccole lampadine a forma di sfera, avvitate su portalampade di metallo. Ogni volta che si tirava fuori la serie di luci dalla scatola, al primo tentativo di accensione non funzionava. Bisognava svitare una ad una le lampadine e provarle tra i poli della batteria da 4,5 volt, con i contatti d’ottone posti in cima. Le lampadine con il filamento interrotto venivano sostituite e poi si procedeva al montaggio. Il filo veniva steso sulla montagna, nascosto tra i cespugli di muschio e gli anfratti del sughero che imitava le rocce.

Quando tutto era pronto, noi ragazzi ci incantavamo ad ammirare quel paesaggio debolmente illuminato nel buio della sala da pranzo. E ogni volta che penso al Natale, la meraviglia di quelle luci splendenti nella stanza buia mi riempie di nostalgia. Una nostalgia dolce che mi riporta indietro a quel tempo felice ormai perduto.

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