Il mistero irrisolto del brutale omicidio di Lidia Macchi, una giovane studentessa di giurisprudenza, rimane ancora oggi senza risposta. Sono passati quasi quarant’anni da quella terribile sera del 5 gennaio 1987, quando la ragazza scomparve nel nulla e il suo corpo fu ritrovato due giorni dopo, massacrato da 29 coltellate.

Le indagini hanno seguito diverse piste nel corso degli anni, ma nessuna di esse ha portato all’individuazione del colpevole. Lidia era una ragazza piena di vita e valori, profondamente cattolica, capo scout della sua parrocchia e attivista di Comunione e Liberazione.

La sera in cui scomparve, era andata a trovare un’amica ricoverata presso l’ospedale di Cittiglio, a due chilometri dal luogo in cui la sua macchina venne ritrovata il 7 gennaio 1987. Accanto alla macchina, Lidia giaceva senza vita, straziata dalla follia omicida del suo assassino.

L’autopsia ha confermato che Lidia aveva subito o aveva avuto in modo consensuale il suo primo rapporto sessuale prima di essere uccisa. Ma chi ha commesso un tale omicidio efferato, ponendo fine alla vita di una ragazza buona e senza nemici?

Le prime indagini portarono a sospettare di un sacerdote di 38 anni, Don Antonio Costabile, amico della vittima. Nel diario di Lidia venne trovata una frase che faceva pensare a un possibile amore impossibile tra i due. Ma il sacerdote venne escluso dai sospettati. Un’altra ipotesi si basava sulla possibilità di uno stupro commesso da uno sconosciuto, ma anche questa pista si rivelò inconsistente.

Nel 2013, un nuovo sospettato emerse: Giuseppe Piccolomo, ex imbianchino di 58 anni, già condannato per omicidio colposo della moglie e dell’82enne Carla Molinari. Piccolomo aveva la residenza nella zona vicina al luogo del delitto e somigliava all’identikit del maniaco del parcheggio. Ma anche lui si rivelò estraneo all’omicidio, in quanto il suo DNA non corrispondeva a quello dell’assassino.

Un anno dopo, la svolta: l’ultimo indagato, Stefano Binda, allievo dello stesso liceo di Lidia e compagno di Comunione e Liberazione. Gli inquirenti furono ingannati dalla presenza di una lettera anonima attribuita erroneamente a Binda, nella quale si parlava di morte e di agnello sacrificale, riferendosi alla tragica fine di Lidia.

Iniziò un lungo processo basato su una ipotesi inconsistente e fallace, ma nel 2019 Binda venne assolto con formula piena, dopo aver trascorso 1286 giorni in carcere come innocente. Il suo caso solleva dubbi sulla costituzionalità del sistema di carcerazione preventiva, che dovrebbe tutelare la presunzione di innocenza.

Nonostante tutto, il vero colpevole è ancora sconosciuto. Il caso di Lidia Macchi rimane un enigma irrisolto, un triste capitolo nella storia della giustizia italiana. Sono passati quasi quarant’anni, ma è necessario ripartire da zero per cercare di trovare la verità.

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