Nella giornata di sabato della scorsa settimana, si sono tenute lungo tutto lo Stivale le inaugurazioni dell’Anno giudiziario presso ogni distretto di Corte d’appello. Ho personalmente assistito a quella che s’è tenuta a Napoli. Faccio grazia all’invalso uso di riempir d’applausi ogni passaggio condiviso dalle contrapposte tifoserie. Sono manifestazioni sino a qualche tempo riservate all’arena degli stadi, ma questo è segno dei tempi. Racconto altro. Anzi no, partirei dagli applausi. Quelli riservati al ministro della Giustizia sono stati una vera, scrosciante ovazione, interminabile, al punto che l’uomo ha avvertito la necessità d’alzarsi per ringraziare. Sono venuti dal pubblico ‘laico’, non togato, e dagli avvocati. Cos’ha detto il ministro per meritare simile, spontaneo tributo?
Inutile dire che il leit motiv di tutti gli interventi dei magistrati – rappresentante Csm, Procuratore generale, rappresentante Anm – con la lodevole esclusione della presidente della Corte d’appello, Maria Rosaria Covelli, che ha tenuto un sobrio e sagace discorso da donna delle istituzioni – è stato il preteso attentato all’autonomia della Magistratura ed alla Carta costituzionale, un’endiadi che i nostri giudici ritengono integrata ed assaltata ogni qualvolta si sentono toccati nel loro status.
Il ministro Nordio, uomo di cultura notevole e ben interiorizzata, ha fatto poche e semplici considerazioni, peraltro tributando pieno rispetto all’ordine giudiziario. A chi gli contestava – i giudici – di violare la Costituzione: che veniva esibita in simbolica protesta da ogni togato mediante l’ostensione d’un foglio di carta in cui era effigiata (meglio, forse, sarebbe stato ne avessero portata una vera da casa, mostrando d’averne usurato, a forza di consultarla, la brossura); a chi gli contestava di far strame della Costituzione, il veneto ministro, già per quarant’anni pubblico ministero, ha opposto il ragionevolissimo argomento che non è in atto una rivoluzione, semplicemente un più che legittimo processo di riforma, regolato dalla Costituzione medesima al suo articolo 138, come sanno, o dovrebbero sapere, anche gli studentelli del prim’anno dell’Università.
Questo, sul piano della correttezza formale. Su quello sostanziale, ha fatto osservare che l’introduzione a far data dal 1988 del nuovo codice di procedura penale, ispirato al principio accusatorio, impone da tempo una più rigida distinzione di ruoli tra accusa e difesa, dato che la prova si costruisce in giudizio, nella dialettica di contrapposizioni tra pubblico ministero ed avvocato: sicché il giudice deve esser terzo, ma proprio terzo, e non collega legato al p. m. da spirito di corpo, o colleganza che si preferisca.
E poi, ma questo il ministro per delicatezza non l’ha detto, c’è in Italia una lunga, lunghissima sequela d’abusi negli uffici di Procura (peraltro non gran scandalo, son investigatori), che impone una più netta distinzione di ruoli, per evitare che al p. m si dia credito non per la solidità delle prove e degli argomenti che le supportano, bensì della propria appartenenza al corpo medesimo dei giudicanti: è, ad esempio, la storia della troppo diffusa sudditanza degli uffici Gip e della sintesi che spesso fanno delle richieste custodiali, trasferendone frequentemente con scarso vaglio critico i contenuti nei provvedimenti cautelari.
Ma poi, il ministro lagunare ha alluso a quello che è il problema principe dell’attuale condizione degli appartenenti all’ordine giudiziario. Ricordando l’insegnamento liberale di Benedetto Croce, ha invitato all’umiltà, all’autocritica, all’autocritica che si fonda, non sulla conoscenza di specifiche tecniche professionali – ché anzi codeste inorgogliscono e talora instupidiscono – bensì sulla riflessione, una riflessione fondata su solide basi di cultura generale, quella che apre al mondo e che, come ricordava Montaigne, rende gli uomini come le spighe, con testa dritta e superbamente svettante nell’età giovanile, piegata ed umile nell’età della raggiunta maturità.
Discorsi alti e difficilmente recepibili, quando si è previamente convinti del proprio, quando ci si ripara dietro stereotipi usurati, che convincono e confortano solo coloro i quali se ne fan scudo per la conservazione d’assetti giustificabili – e nemmeno lì – sulla base di condivisioni corporative, quando, in luogo di confrontarsi seriamente con argomenti, si ripetono slogan e s’inalberano simulacri di Costituzione, feticizzata qual Evangelo, quando si tratta invece di realizzazione umana, che ha la sua vicenda storica, d’ideazione, affermazione e superamento. Dimèntichi, peraltro, i nostri giudici, che essi son soggetti, come usano senza posa reclamare, alla legge, anzi essi tengono a dire, ‘soltanto alla legge’.
E pur sia, a volerci credere. Sennonché, fino a prova contraria, le leggi hanno un certo qual percorso che le fa passare per il Parlamento della Repubblica – non per le Sezioni Unite della Cassazione – e quelle costituzionali sono sottratte al loro vaglio, in qual che sia forma (salvo abnormità).
Sicché è proprio quanto essi rivendicano (il culto della Costituzione) che dovrebbe far loro avvertire sino a qual misura il comportamento attuale – i magistrati presenti tra il pubblico sono addirittura usciti dalla Sala dei Busti quando il ministro Nordio ha preso la parola – assume tratti di grave mancanza costituzionale, soprattutto quando consimili condotte sono riprodotte serialmente a livello nazionale e dunque sono imputabili alla Giurisdizione dello Stato, quella che ha per dovere primario e fondante di far rispettare la legge ed ogni procedimento in essa previsto, anzitutto quelli di modifica della Carta fondamentale.
L’opposizione si fa in Parlamento e nella pubblica opinione; le inaugurazioni dell’anno giudiziario sono solenni manifestazioni della Repubblica e non occasioni di stereotipata messaggistica politica: queste espressioni delegittimano l’intero, precario apparato dello Stato e, dunque, per prima la sua giurisdizione, che dello Stato dovrebbe esser la voce più ferma. Il non comprender questo – o peggio, il non sentirsi responsabile di questo – da parte di chi proprio di questo dovrebbe esser custode, lascia da pensare, molto da pensare.