L’agguato ai danni di Carmine Tripodi, avvenuto 38 anni fa lungo la strada di ritorno verso casa, è ancora un caso aperto. Quest’uomo, originario di Torre Orsaia in provincia di Salerno, era il comandante della stazione dei carabinieri di San Luca, in Calabria, e in quei mesi era impegnato nelle indagini per liberare le persone sequestrate dalla ‘ndrangheta, un’organizzazione criminale che si arricchiva attraverso questi rapimenti e seminava il terrore in tutta Italia.
Nel 1985, Tripodi, arrivato in Calabria alla fine degli anni ’70, fu vittima di un omicidio. Dopo di ciò, iniziarono i processi e le assoluzioni, ma il mistero sul commando che aveva ucciso il brigadiere rimase irrisolto. Ora, la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria riaccende i riflettori su questo caso, attraverso accertamenti dei carabinieri su reperti e tracce di sangue ritrovati sul luogo del delitto.
Sono stati notificati quattro avvisi di garanzia agli indagati prima dell’esecuzione degli accertamenti tecnici che saranno effettuati dai Ris di Messina nelle prossime ore. Tra i reperti da analizzare ci sono indumenti, sassi e toppe di asfalto, ma soprattutto si cerca il sangue di uno dei killer. Si spera che l’estrazione del sangue dai reperti consenta di risalire a un profilo genetico e identificare così uno dei responsabili dell’omicidio.
Tripodi era un uomo coraggioso, che non si arrendeva mai nella sua lotta contro la ‘ndrangheta. Setacciava covi e bunker per rintracciare le persone sequestrate e non dava tregua alle cosche, effettuando perquisizioni e arresti. Fu proprio per questo che l’organizzazione criminale decise di eliminarlo. La sera del 6 febbraio del 1985, un commando lo bloccò mentre stava tornando a casa. Tripodi, nonostante fosse disarmato, reagì sparando con la pistola di ordinanza e riuscì a ferire uno dei killer. Ora, si spera che il sangue trovato sui reperti possa aiutare a risolvere questo caso e fare luce sull’omicidio di un eroe che ha perso la vita nella sua battaglia contro la ‘ndrangheta.