Sul ripiano inferiore della nostra scogliera, tra la Grotta della Natività e l’osteria, troviamo alcune figure di minor importanza, come la trentasettesima, rappresentata da vecchi che filano. In esse è facile riconoscere il richiamo alle tre Parche, Cloto, Lachesi e Atropo, raffigurate nella mitologia romana come tre vecchie filatrici scorbutiche, simili alle Moire greche, che sovrintendevano ai destini degli uomini. La prima tessere il filo della vita; la seconda assegnare a ogni uomo il suo destino, determinandone anche la durata; infine la terza, l’inesorabile, tagliava il filo al momento stabilito. La loro figura ha sempre colpito gli artisti e, ad esempio, Foscolo le immagina così ne “I Sepolcri”, quando descrive la battaglia tra i greci di Milziade e i Persiani: “E un nincalzar di cavalli accorrenti, scalpitanti su gli elmi ai moribondi. E pianti e inni e delle Parche il canto”.

La trentottesima figura è quella dei due vecchi che si scaldano al fuoco. La tradizione ha voluto vedere in loro il simbolo di Saturno e Rea. Saturno, nella mitologia romana, diventa Crono per timore di essere spodestato dai figli, come aveva fatto con suo padre Urano, divorando tutte le creature che sua moglie Giunone (la greca Era) partoriva. Ma quando nacque Zeus, la madre fece inghiottire a Crono una pietra avvolta nelle fasce. Così, quando Zeus crebbe, il Giove romano evirò suo padre e ne prese il posto.

Ma ora veniamo ad uno dei luoghi più caratteristici del nostro presepe, l’osteria, che rappresenta il quarantesimo elemento del presepe. Il significato attribuito a questo luogo, accanto alla grotta della Natività, è in contrapposizione in alcuni aspetti. Qui c’è il senso di cibarsi in modo materiale, mentre il neonato Bambino offre un cibo spirituale. Ma la taverna allude anche all’episodio, riportato anche nelle sacre scritture, del viaggio di Maria e Giuseppe a Betlemme, quando alla ricerca di un rifugio per la notte furono rifiutati da tutti gli osti che incontrarono lungo il loro cammino. Quel viaggio è oggetto della poesia “La notte santa” di Guido Gozzano.

I versi di Gozzano aggiungono al nostro viaggio attraverso il presepe un nuovo gusto. Un’aria di altri tempi. L’aria di quei Natali, quando ancora sedevamo sui banchi di scuola e la sorte ci accorava dei due stanchi pellegrini, umiliati dai dinieghi altezzosi di quegli osti.

Ma torniamo al nostro presente e al viaggio attraverso i simboli del presepe. Le tavole imbandite davanti all’osteria richiamano, secondo l’interpretazione di alcuni, altre tavole. Come quelle delle nozze di Cana, dove Gesù trasformò l’acqua in vino, oppure quell’ultima cena, in cui fu consumato il sacrificio di Giuda.

Nell’immaginario popolare di Napoli e dintorni, l’osteria è il luogo dei piaceri, dell’abbondanza di quel cibo sempre sognato dalle classi popolari, dove scorreva il vino in abbondanza e la musica allietava i presenti. Era il luogo in cui i viaggiatori si fermavano per riposare, ma era anche un luogo che aveva una cattiva fama, dove gli uomini si abbrutivano con il vino, il gioco delle carte e spesso scoppiavano furiose liti e brillavano i coltelli per i motivi più diversi, il denaro o le donne di malaffare che erano sempre presenti per adescare i clienti. Ma era anche il luogo in cui gli avidi locandieri arrivavano, talvolta, ad uccidere i clienti nel sonno per rapinarli.

L’abbondanza dei cibi esposti sulla porta, le salsicce, i caciocavalli, le carni fresche, i fiaschi di vino, i piatti di maccheroni e i grossi pani, richiamano alla memoria gli alberi della cuccagna, che fino alla fine del XVIII secolo venivano allestiti per divertire il popolo e gli aristocratici che assistevano allo spettacolo dai balconi dei palazzi, quasi spettatori degli antichi anfiteatri romani.

Insomma, l’osteria con i suoi tavoli imbanditi e i suoi avventori, immersi nella vita reale, suscita le interpretazioni più diverse, come molte delle figure di questo presepe, che attinge ai miti, alla cultura popolare e alle leggende, oltre che alla religione, mescolando il sacro con il profano in una rappresentazione il cui fascino non smette di meravigliarci.

Ma a quell’abbondanza e a quelle tavole imbandite si può dare anche un significato ulteriore. Quei commensali ci ricordano il rito napoletano chiamato ‘o cunsuolo, ma anche i più antichi banchetti funebri, dove la famiglia e gli amici si riunivano intorno ad una tavola imbandita in onore del defunto. Ma attraverso questa via si può anche leggere un accenno all’Eucaristia, dove il pane e il vino diventeranno il corpo e il sangue del nostro Salvatore.

A sovrintendere all’osteria c’è lui, l’oste, che ha sempre goduto di cattiva fama. Una figura un po’ luciferina che qualcuno ha avvicinato al Procuste greco. Il bandito che tendeva tranelli ai viaggiatori nell’Attica, lungo la via Sacra tra Eleusi e Atene. Li catturava e li uccideva battendoli con un martello su un’incudine a forma di letto. Poi si appropriava dei loro averi.

Luci e ombre intorno a questo luogo che non manca mai accanto alla grotta dove si compie il prodigio di un Dio sceso in terra per farsi uomo.

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