L’Italia è da sempre considerata la culla del diritto, ma negli ultimi anni è diventata la tomba della Giustizia. Il nostro Paese si posiziona molto in basso nelle classifiche mondiali sull’efficienza della giustizia, sia a livello europeo che globale. Questo risultato è sorprendente considerando la millenaria tradizione giuridica italiana.

Analizzando il processo penale, si può notare che le riforme degli ultimi anni hanno avuto come obiettivo principale quello di chiudere i fascicoli in modo rapido, utilizzando benefici, preclusioni e ostacoli. Tuttavia, chiudere un fascicolo non significa fare giustizia. Chiudere un caso è solo un’operazione burocratica, mentre fare giustizia significa rispondere alle domande delle persone coinvolte, sia vittime che imputati.

La radice del problema risale al 1989, quando è stato introdotto il “nuovo codice di procedura penale”. In quel momento non si è avuta la determinazione di fare una scelta significativa: è stato creato un codice con un’impronta accusatoria per quanto riguarda le indagini e il dibattimento di primo grado, ma il sistema successivo è rimasto pressoché immutato. Anche noi magistrati abbiamo sottovalutato il fatto che il nuovo processo avrebbe sollevato questioni riguardanti l’ufficio del pubblico ministero e le modalità di esercizio dell’azione penale. Gli avvocati, d’altra parte, si sono illusi che nulla sarebbe cambiato, soprattutto per quanto riguarda il regime delle impugnazioni e l’estensione del giudizio di appello e di cassazione. Attualmente, la Corte di Cassazione riceve più di ottantamila ricorsi all’anno, un numero unico al mondo che è incompatibile con la funzione di nomofilachia.

Per fare dei confronti, in Inghilterra e negli Stati Uniti, le sentenze di primo grado sono immediatamente esecutive e gli appelli sono molto rari e rigorosamente disciplinati. Invece, in Italia pretendiamo di combinare un modello accusatorio, l’obbligatorietà dell’azione penale, tre gradi di giudizio, appelli e ricorsi in massa alla Corte di Cassazione. Questo trasforma il processo in una lunga corsa ad ostacoli, rallentata dalle gravi carenze di personale amministrativo e risorse.

Questo approccio ha portato al fallimento dei riti alternativi e ha reso la prescrizione o la decadenza l’unico risultato possibile. Al momento, vengono celebrati solo i processi con imputati detenuti, come accade a Napoli, ma non siamo gli unici.

Finora, sono stati adottati provvedimenti tampone per risolvere i problemi, come la priorità, la particolare tenuità del fatto, il nuovo regime di avocazioni e la prescrizione. Anche la recente riforma Cartabia contiene alcune norme volte a modernizzare e velocizzare il processo, ma allo stesso tempo contiene disposizioni che portano alla “evaporazione” del processo stesso o al suo rallentamento. Continuando così, avremo una normativa processuale penale simile a un vestito di Arlecchino, fatto di toppe e rammendi, senza una coerente sistematicità.

In definitiva, è necessaria una riforma organica e strutturale di un processo ormai indecifrabile, anziché interventi parziali e “ortopedici”. Sarebbe come cercare di curare il cancro della pelle andando dall’estetista. Magistrati, avvocati e soprattutto cittadini continueranno a vivere in una stazione da cui partono migliaia di treni, molti dei quali non raggiungeranno mai la loro destinazione.

È urgente affrontare questo problema e trovare soluzioni concrete per migliorare l’efficienza della giustizia italiana. Solo così potremo ridare dignità e fiducia al nostro sistema giudiziario.

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