Il corpo di Lidiya giace nella cella frigorifero dell’obitorio dell’Ospedale del Mare. Questa donna, nata a Sofia nel 1957 e cittadina bulgara, è morta a Napoli. Il suo ultimo respiro è stato nella rianimazione di Ponticelli, il 15 marzo, più di sette mesi fa. Eppure, da allora, non è ancora stata sepolta.

La sua vita è stata segnata da privazioni e solitudine, e ora, al termine di questo difficile percorso, si trova intrappolata in un meccanismo burocratico che non si ferma nemmeno di fronte alla morte. Nonostante la sua anima sia ormai libera, il suo corpo rimane prigioniero di una serie di procedure amministrative che sembrano non avere fine.

Questa vicenda mette in luce il lato più oscuro dell’amministrazione, che spesso si dimostra incapace di fornire una risposta tempestiva ed adeguata alle necessità dei cittadini. La morte di una persona dovrebbe essere un momento di riflessione, di rispetto e di commozione per la vita che si è spenta. Invece, ci troviamo di fronte a una situazione in cui il corpo di Lidiya è trattato come un oggetto, dimenticato e abbandonato in una cella fredda.

Non si può negare che ci siano delle difficoltà logistiche e organizzative nel gestire il numero crescente di decessi, soprattutto durante periodi di emergenza sanitaria come quello che stiamo vivendo. Tuttavia, è fondamentale che le istituzioni si impegnino a trovare soluzioni adeguate, in modo da garantire una sepoltura dignitosa per ogni individuo.

È importante ricordare che dietro ogni corpo senza vita c’è stata una vita vissuta, con gioie e dolori, con relazioni e speranze. Non possiamo permettere che queste persone vengano dimenticate e trattate come oggetti di una burocrazia insensibile.

Speriamo che la storia di Lidiya possa servire da monito e spingere le autorità a migliorare le procedure di gestione dei defunti, affinché nessun altro debba subire un destino simile. Ogni essere umano merita rispetto, anche dopo la morte.

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