Il delitto di Cogne: un caso mediatico irrisolto
Il delitto di Cogne è uno dei casi di cronaca nera più inquietanti e misteriosi della nostra storia. Questo processo mediatico senza precedenti si è sviluppato parallelamente all’iter giudiziario, attirando l’attenzione dei media per mesi.
Prima di questo caso, probabilmente solo la tragica vicenda di Alfredino Rampi, il bambino caduto nel pozzo di Vermicino nel 1981, aveva avuto una tale risonanza mediatica. Tuttavia, mentre la tragedia di Vermicino durò solo pochi giorni, il delitto di Cogne, non trovando una soluzione immediata, si trasformò in una sorta di reality, un appuntamento fisso per il pubblico.
Ogni giorno, chi accendeva la televisione o apriva un giornale si chiedeva quali fossero le ultime novità, le dichiarazioni dei protagonisti della vicenda. In effetti, il caso di Annamaria Franzoni è il primo in cui un ipotetico assassino, nonché madre della vittima, si è presentato in televisione per dare la sua versione dei fatti.
L’ampia risonanza mediatica del caso è stata centrale anche nella strategia di difesa dell’avvocato della Franzoni, Carlo Taormina, che ha occupato gli studi televisivi insieme alla sua cliente.
Ma cosa è successo a Cogne e quando? Era la mattina del 30 gennaio 2002 quando Annamaria Franzoni chiamò il centralino della Valle d’Aosta del 118 in cerca di aiuto. Poco dopo le 8, la donna denunciò lo stato di salute del figlio Samuele, di tre anni, che stava vomitando sangue.
I soccorsi arrivarono immediatamente, ma purtroppo non c’era nulla da fare per il piccolo. I soccorritori constatarono che le ferite sul corpo della vittima erano il risultato di un atto violento e avvisarono i carabinieri, che iniziarono le prime indagini. Il bambino, che presentava una profonda ferita alla testa, fu dichiarato morto alle 9:55.
L’autopsia stabilì che la causa del decesso erano almeno diciassette colpi sferrati con un oggetto contundente. Quaranta giorni dopo il delitto, la madre fu iscritta nel registro delle notizie di reato e il 14 marzo 2002 venne arrestata con l’accusa di omicidio volontario, aggravato dal vincolo di parentela.
Molti fattori hanno contribuito a trasformare questo tragico evento in un processo mediatico. Sicuramente, il tipo di delitto, una madre che uccide il proprio figlio, ha sempre attirato l’attenzione del pubblico. Tutto ciò è stato amplificato dalla presenza di Annamaria Franzoni in televisione. Poterla vedere, analizzarne i gesti, capire se mentisse o dicesse la verità, ha alimentato la curiosità morbosa degli spettatori.
Dal punto di vista giudiziario, il caso si è concluso con la condanna di Annamaria Franzoni per infanticidio. Il 19 luglio 2004, la donna è stata condannata in primo grado a 30 anni di reclusione, ma in appello nel 2007 la pena è stata ridotta a 16 anni, confermata poi dalla Cassazione nel 2008. Annamaria Franzoni ha scontato complessivamente sei anni di carcere e cinque mesi di detenzione domiciliare, estinguendo la pena in anticipo per buona condotta.
Dal settembre 2018, quindi, è libera grazie all’indulto e ai giorni di liberazione anticipata. L’opinione pubblica, tuttavia, rimane divisa tra coloro che credono nella colpevolezza della Franzoni, considerando la spiegazione più semplice del fatto, ovvero la tragedia di una madre che uccide il proprio bambino, e coloro che faticano a credere che una madre che ha commesso un delitto del genere non crolli e continui a professare la sua innocenza, nonostante nessuna delle ipotesi alternative si sia rivelata verosimile.
A distanza di oltre vent’anni dal delitto, conclusi i tre gradi di giudizio, rimangono irrisolti i misteri che hanno avvolto il caso sin dall’inizio: l’arma del delitto mai trovata, il movente, i presagi di morte prematura del piccolo Samuele Lorenzi.
L’arma è un oggetto tagliente con il manico, mai trovato o, almeno, mai individuato tra quelli sequestrati dagli investigatori. Questa è l’ipotesi finale formulata dai giudici di Cassazione sull’arma con cui è stato ucciso Samuele Lorenzi il 30 gennaio 2002. “Il mancato rinvenimento dell’arma del delitto, unitamente alla circostanza che i Lorenzi non hanno denunciato la scomparsa di nulla, ha indotto i giudici a considerare ancora più improbabile l’ipotesi della responsabilità di un estraneo”.
Il movente potrebbe essere stato un capriccio del bambino, secondo le motivazioni della sentenza di condanna della Cassazione nel luglio 2008. Tuttavia, non è stato possibile individuare con certezza la causa o l’occasione che ha portato al gesto criminale. Ma questa circostanza, secondo i giudici della Cassazione, non impedisce di attribuire la responsabilità all’imputata, data la solidità delle prove.
Infine, il presagio di morte prematura: Annamaria Franzoni aveva “preoccupazioni” sulla normalità e lo sviluppo regolare di Samuele. Questa sorta di ossessione, emersa fin dai primi giorni dell’inchiesta e citata anche nella sentenza definitiva di condanna, ha portato la madre a formulare il “presagio di una sua possibile morte prematura”.
Ecco perché ancora oggi, dopo oltre vent’anni, tutti ricordiamo il nome di un piccolo comune valdostano di poco più di mille abitanti, situato ai piedi del massiccio del Gran Paradiso: Cogne.