Con l’avvicinarsi delle feste di Natale, anche nella nostra provincia è iniziata la campagna di “adozione” delle pigotte, le bamboline di stoffa che l’Unicef ha diffuso nel mondo a scopo benefico, per aiutare i bambini denutriti dei Paesi poveri.

Si dice che il nome, che non si trova in nessun vocabolario, derivi dal dialetto lombardo, o meglio longobardo, per la sua lontana ascendenza con la “Longobardia Maior” con capitale Pavia. Ma, curiosamente, Benevento era la capitale della “Longobardia minor” e per circa tre secoli dominò le regioni circostanti, fino a quando, poco dopo l’anno Mille, la città cadde sotto il controllo del Papato che la governò “alla papalina” fino all’Unità d’Italia, mantenendola sempre distinta dal Regno di Napoli.

Ma questa distinzione non coinvolse le bambole di pezza, unico eppure modesto passatempo. In Campania la pigotta è sempre stata chiamata semplicemente “bambola di pezza”, perché, per far giocare le bambine, fino all’ultima guerra le mamme e le nonne troppo povere arrotolavano a cilindro una striscia di stoffa alta almeno una ventina di centimetri, ricavata da vecchi indumenti, poi la stringevano al centro con un pezzo di cordicella per simulare la vita della nuova bambola, poi un altro pezzo presso uno dei margini per simulare la testina su cui spesso annodavano un triangolino di stoffa come fazzoletto da testa.

Siamo lontani dalle figurine femminili infantili che si sono succedute nell’antichità in legno, osso e pezza, tanto che quelle del Rinascimento erano sfarzose! Poi in Inghilterra furono fatte di cartone, in Germania comparvero quelle di cartapesta dando il via alla produzione di giocattoli di Norimberga, in Francia inventarono la testa di biscuit, porcellana che poi si diffuse ovunque, nel Novecento anche in Italia dove, quando ancora non esistevano fabbriche organizzate, furono fatte prima in una specie di cartapesta verniciata e capelli di stoppa, poi in celluloide o porcellana, fino a raggiungere belle forme con capacità espressive del volto nel tardo Novecento.

Venivano acquistate, però, solo da persone benestanti, quindi la vita delle bambole di pezza non poteva finire. Benevento ne porta, per così dire, la bandiera, anche se se ne parla poco in giro, nonostante ci siano molte mamme e nonne che hanno ereditato l’arte e che ancora creano bellissime “pupelle” a beneficio dei bambini e degli adulti, con una passione che riflette l’amore per l’infanzia.

Naturalmente nel corso del tempo si sono perfezionate e sono scomparsi i cilindri di stoffa. La costruzione della sagoma e degli ornamenti, frutto di molte riflessioni, ha assunto caratteristiche particolari, soggettive, capaci di dimostrare che si tratta di una tradizione locale, ma affine all’immaginazione della creatrice.

Le parti del corpo non appartengono ad un’unica confezione rigida, ma sono delineate secondo una visione personale della loro conformazione, e spesso le gambe sono più paffute delle braccia, proprio come spesso accade con i bambini.

La sagoma viene e talvolta ancora viene riempita con lana vecchia o con residui di stoffa logora ma impilabile. La testa non fa parte della sagoma, è spesso rotonda e attaccata al corpo con il cucito ed è proprio con punti di cucito, di ricamo colorato potremmo dire, che vengono delineati occhi, ciglia, sopracciglia e bocca. Mentre residui di lana di colore adeguato simulano i capelli.

Il vestitino spesso rispecchia fantasie tessili locali, poiché è realizzato con i resti più adatti di abiti dismessi. E viene realizzata anche la biancheria intima e infine le scarpette, sempre di pezza.

La signora Pina Iannazzone ci racconta che le creazioni della sua defunta madre, Candida, un tempo molto famose a San Nicola Manfredi, venivano prima immaginate nell’aspetto e poi animate con l’invenzione di una loro vita familiare di cui addirittura raccontava episodi talvolta divertenti che i bambini credevano veri, ascoltandoli nei lunghi pomeriggi d’inverno presso il fuoco del camino. E aveva persino scoperto come dare un colore ambrato naturale alla “pelle” delle bambole: faceva aderire alla sagoma pezzi di calze di nylon!

Non sembra, ma sono numerose le donne sannite che coltivano questa antica passione, ognuna con un tocco personale. Forse la produzione per beneficenza dell’Unicef potrebbe essere l’occasione per raccontare la storia delle loro competenze, che ora intraprendono anche nuove strade. Chi avrebbe mai immaginato che una cittadina della nostra piccola Benevento, la signora Angela Iadanza, oltre alla confezione delle bambole di pezza, ha aggiunto anche quella delle bambole all’uncinetto seguendo l’influenza giapponese del “metodo amigurumi” che ha scoperto e studiato tramite internet?

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