Sono tornati, quest’anno, dopo una lunga assenza gli zampognari nella nostra casa. Sono arrivati inaspettati, hanno bussato, sono entrati e hanno fatto risuonare nelle mura di casa l’inno “Tu scendi dalle stelle”, o meglio “Quanno nascette Ninno”, che così, in lingua napoletana, lo compose sant’Alfonso Maria dei Liguori.
Ma, a differenza di quanto accadeva tanti anni fa, hanno suonato i loro strumenti davanti a un presepe così scarno da far quasi tristezza: quattro statuine, la sacra famiglia, un bue e un asinello e due zampognari, posti su una tavoletta di sughero. Il tutto posto in un vano tra i volumi della libreria.
Il bel presepe di un tempo non vede più la luce nella nostra casa da innumerevoli anni. Tra queste pareti è sceso ormai il silenzio, non vi sono più voci di bambini ed io mi aggiro, ogni giorno, per le stanze vuote.
Non dedico più tempo alla realizzazione di quel presepe, che ogni anno assumeva un aspetto diverso, a seconda dell’ispirazione del momento: le rocce di sughero, le casette di cartone dai colori più diversi; Benino in cima allo scoglio e il torrente fatto con la carta argentata delle tavolette di cioccolato, in fondo il laghetto, fatto con un pezzo di specchio e il pescatore che in esso lanciava la sua lenza, i Magi con le loro vesti sontuose che arrivavano dall’oriente, la stella in cima alla grotta che occupava la parte bassa e centrale della scena, gli angeli che volteggiavano e annunciavano ai pastori l’avvento del divino Bambino. E una folla di pastori che portavano i loro doni al Signore, le pecore sparse tra i cespugli di muschio dei monti. Accanto alla grotta l’osteria con il suo tripudio di salami e prosciutti e le botti di vino accanto alla porta e la tavola imbandita e i commensali che brindavano.
Nulla di tutto ciò è oggi possibile rivedere. Eppure, mentre i nuovi zampognari, diversi anche nell’aspetto, moderni per la foggia dei vestiti, riempivano l’aria del suono della zampogna e della ciaramella, l’animo che non si arrende, ha fatto riaffiorare dalla nebbia dei ricordi i versi della poesia di Pascoli, imparata a memoria sui banchi delle elementari:
Udii nel sonno le ciaramelle,
ho udito un suono di ninne nanne,
ci sono in cielo tutte le stelle,
ci sono le luci nelle capanne.
Sono venute dai monti oscuri
le ciaramelle, senza dire niente,
hanno destato nei suoi tuguri
tutta la buona povera gente.
Ognuno è uscito dal suo giaciglio,
accende la luce sotto la trave,
sanno quelle luci di ombra e sbadiglio,
di passi cauti, di voce grave.
Allora, come forse accadeva al poeta, che da adulto, rievocava i Natali della sua fanciullezza, anche io sono tornato indietro nel tempo. Mi sono ritrovato bambino ad assistere alla preparazione del presepe da parte di mio padre.
A quel tempo, dopo aver tirato fuori dagli scatoloni le statuine, accadeva che, per quanto cura si fosse posta nel metterle a posto, qualcuna veniva fuori mutilata di un braccio, di una gamba e qualcuna addirittura della testa. Occorreva ripararle e allora per la casa si spargeva l’odore pungente della colla di pesce, messa a sciogliere sul fuoco, in un barattolo di latta. Poi andavano fissate alle rocce di sughero e il presepe, poco a poco, prendeva forma.
Infine mio padre distribuiva tra le rocce di sughero e i cespugli di muschio una serie di piccole lampadine rotonde ad imitazione dei fuochi dei pastori. Per me era una fascinazione incredibile, una commozione profonda, osservare nel buio della stanza quelle flebili luci che animavano un sogno. Erano tempi in cui, senza esserne consapevoli, si era felici ed ancora ignari delle asperità della vita. Oggi sull’animo sono numerose le cicatrici e alcune ferite ancora sanguinano e non vogliono sapere di rimarginarsi. E il Natale felice di un tempo è diventato solo fonte di malinconia.