Aldo Bianchini
SALERNO – Sto attualmente facendo una ricostruzione storica del processo “Linea d’ombra” a carico dell’on. Alberico Gambino e dell’accusa tentata contro l’ex segretaria del Comune di Pagani, la dottoressa Ivana Perongini, per il reato di “intralcio alla giustizia”. Quest’accusa è stata subito archiviata e la dottoressa Perongini era difesa dall’avvocato Giovanni Falci. Il pubblico ministero Vincenzo Montemurro cercò, con intelligenza ma senza una base concreta di credibilità, di proiettare nel processo-madre l’accusa di “subornazione” al fine di acquisire prove che si stava rendendo conto di non avere.
Non si tratta solo di supposizioni giornalistiche, ma lo dico partendo da una frase pronunciata da Montemurro durante una delle prime udienze del processo presso l’aula bunker di Nocera Inferiore, quando tutti gli imputati erano ancora dietro le sbarre: “Penso che la società civile di Pagani abbia tanto da imparare da questo processo”.
Io la pensavo esattamente come il pubblico ministero e credo fermamente che da quel processo “la società civile di Pagani (e non solo!) e la giustizia in generale avrebbero avuto tanto da imparare”, ma in modo diverso da come è stato prospettato dall’accusa.
Ma cos’è precisamente la subornazione e come deve il magistrato inquirente scoprire e, se del caso, portare a processo?
Innanzitutto, si tratta di uno dei delitti più spregevoli che si possano commettere contro la giustizia. La parola “subornare” è poco diffusa nel pubblico e significa essenzialmente dare o promettere denaro o qualsiasi altra utilità a un testimone o a una persona informata sui fatti al fine di fargli deporre il falso. A tal fine, non conta se il testimone viene effettivamente sentito dal giudice, ma è sufficiente che gli sia consentito di deporre. Inoltre, non è necessario che accetti o meno la “proposta indecente”. Ovviamente, la subornazione diventa un “delitto spregevole” quando viene effettivamente consumata per spingere il testimone a dire il falso e non per sollecitare il ricordo della verità.
Questo è un passaggio fondamentale in cui spesso, troppo spesso, anche i pubblici ministeri più agguerriti si perdono quando vanno testardamente alla ricerca solo delle prove a carico e non anche a discarico, come imporrebbe la legge. È evidente che su queste sottigliezze (indurre a dire il falso o sollecitare a ricordare la verità) si sono scatenate battaglie giudiziarie vergognose che hanno lasciato molte vittime sul campo, in entrambi i casi. La delicatezza estrema dell’argomento ha alimentato, negli annali della giustizia, almeno due correnti di pensiero opposte. Per affrontarlo in modo completo, è necessario fare riferimento alle sentenze che, se non fanno legge, forniscono una guida.
Ho ripreso una vecchia sentenza istruttoria di proscioglimento (n. 198/83 del 24 ottobre 1983) emessa dal capo dell’ufficio istruzione di Salerno, il dott. Lino Ceccarelli, per smontare l’impianto accusatorio del pubblico ministero Luciano Santoro che voleva l’arresto dell’indagato e dei testimoni subornati (sentiti due volte) in una vicenda giudiziaria di poco conto (l’accusa era di ipotetico assenteismo) che poteva comunque causare danni. Ho citato due figure di spicco della magistratura salernitana schierate l’una contro l’altra. Il giudice Ceccarelli ha emesso una sentenza istruttoria di ben 17 pagine in un’epoca in cui i “proscioglimenti in istruttoria” venivano decisi con poche righe, tanto era l’eco che suscitava quel processo. Ecco cosa ha scritto Ceccarelli:
“È evidente che tra una deposizione e l’altra la memoria sia stata sollecitata; e non è da escludere che il sollecitatore – direttamente o indirettamente – sia stato l’imputato, ma non è questo il problema. Il problema da risolvere non sta nel determinare se i testimoni siano stati o meno sollecitati, ma nel determinare se siano stati sollecitati a dire il vero o a dire il falso… Non si può condannare se… Li abbia sollecitati a ricordare come si sono svolti i fatti; li abbia, cioè, sollecitati a dire il vero… Sarebbe troppo semplicistico affermare, come fa un noto showman specialista di quiz televisivi, che “la prima risposta è quella che conta”: l’accertamento della verità, in un processo penale, non segue gli stessi binari di un quiz televisivo. E avrebbe senz’altro facilitato il compito del giudice adottare un’altra soluzione, che il sistema giuridico gli consentiva: il ricorso all’articolo 359 del codice di procedura penale… Ma a parte il fatto che per procedere all’arresto dei testimoni per falsa testimonianza si sarebbe dovuto avere la certezza che avessero detto il vero nella prima deposizione e mentivano nella seconda, non è detto che, con una tale soluzione, si sarebbe raggiunta la verità… spesso i testimoni arrestati hanno ritrattato, ma non il falso, dicendo il vero, ma il vero, dicendo il falso…”.
Una eccellente lezione di diritto penale da parte del dott. Lino Ceccarelli, che ci ha lasciato solo pochi anni fa dopo una lunga vita dedicata all’amministrazione della giustizia e alla sua famiglia. Un uomo e un magistrato di grande valore che non ha mai oltrepassato i limiti e non è mai finito sulle prime pagine dei giornali. Era un uomo integerrimo e guardava negli occhi gli indagati e gli imputati, leggendo attentamente gli atti allegati ai fascicoli. Una sentenza che fa scuola, bisogna ammetterlo; una sentenza ancora attuale nonostante le modifiche, forse innaturali, del processo penale che è passato troppo rapidamente da inquisitorio a indiziario senza le necessarie garanzie per tutte le parti coinvolte, soprattutto per gli indagati. Prima c’era il dibattimento pubblico che si svolgeva effettivamente in aula, oggi il dibattimento si sviluppa sui media che, ripeto, tendono a schierarsi facilmente con l’accusa perché fa sicuramente più notizia.
Devo dare atto al dott. Vincenzo Montemurro di essere stato in quell’occasione un magistrato di altri tempi, attento alle reazioni di coloro che aveva di fronte per capire quando era necessario fare un passo indietro, come ha fatto archiviando il fascicolo d’accusa. Probabilmente anche lui, come Ceccarelli, ha guardato negli occhi la dottoressa Perongini e l’avvocato Falci.