Il disagio psichico è una realtà che colpisce molte famiglie, anche nel Sannio. È questo il tema di una lettera commovente inviata da un lettore, che per privacy ha scelto di non rivelare i propri dati personali. Il racconto, che parla di inerzia e omissioni nel sistema sanitario, è davvero straziante.
Il protagonista della storia si chiama Giovanni Rossi, e ha 31 anni. Nel 2003, quando aveva solo 11 anni, la sua famiglia è entrata nel radar dei servizi sociali del Comune di San Leucio del Sannio. I suoi genitori avevano entrambi problematiche psichiche e fisiche complesse, e con loro viveva uno zio con problemi di schizofrenia e ritardo mentale.
Giovanni e sua sorella Raffaella (anche questo nome di fantasia) sono stati affidati a diverse case famiglie senza fare più ritorno a casa fino al compimento dei 21 anni. Poi, al compimento dei 21 anni, per Raffaella era previsto il rientro a casa dai genitori, nonostante fossero ancora presenti gli stessi problemi di sempre. Dopo qualche mese, però, Raffaella mostra assenza di igiene personale e malnutrizione, perde l’autonomia personale, minaccia il suicidio e viene ricoverata presso il reparto di Psichiatria.
Giovanni decide di assumere la qualità di tutore di Raffaella e chiede, inutilmente, supporto ai servizi sociali di San Leucio. Raffaella viene trasferita in una struttura di assistenza, dove comincia un progetto terapeutico riabilitativo individualizzato. Le sue condizioni migliorano, ma alla conclusione del terzo anno del Ptri la commissione medica e i servizi sociali ritengono opportuno che Raffaella ritorni a casa, dove intanto le condizioni del nucleo familiare sono addirittura peggiorate.
Giovanni decide di far continuare il progetto riabilitativo privatamente, sostenendo costi di 1000 euro al mese. A 18 anni torna dai suoi genitori e cerca di risollevare quelle vite, quelle memorie che si erano fermate diversi anni prima. Purtroppo, la situazione si è complicata e la sua permanenza in quel contesto dura poco.
Giovanni si batte per ottenere assistenza domiciliare dai servizi sociali e dal Dipartimento salute mentale presso l’Asl di Benevento, dove sua madre e suo zio materno erano in cura da moltissimi anni. Ma i servizi sociali non hanno accolto la richiesta perché a sua madre mancava il certificato “giusto” pur essendo stata dichiarata invalida al 100%. Quanto al Dsm, benché sua madre dovesse seguire una terapia tutti i giorni due volte al giorno, ha attivato l’assistenza domiciliare solo per tre giorni alla settimana.
Mia madre si aggrava, con crisi epilettiche e stati confusionali che hanno reso necessario anche l’intervento del 118 e l’attivazione di un trattamento sanitario obbligatorio. Il Dsm a fronte di tutto questo si è limitato a modificare la terapia farmacologica e mia madre dopo il Tso è stata rimandata a casa da mio padre e mio zio, non certo in grado di aiutarla avendo entrambi, come già spiegato, grossi problemi.
Dopo l’ennesimo ricovero, Giovanni decide di fare trasferire suo padre, le cui patologie si sono aggravate, in una Rsa, ancora una volta, non ricevendo alcuna assistenza da parte di enti pubblici o istituzioni. Durante il periodo natalizio, sua madre ha continuato ad avere ripetute crisi dovute alla mancata somministrazione domiciliare della terapia da parte degli infermieri del Dsm. Il 19 gennaio, sua madre ha una forte crisi epilettica, cade e finisce con la testa nel camino ustionandosi gravemente al volto e al capo.
Secondo Giovanni, una regolare somministrazione della terapia avrebbe scongiurato l’accaduto. Sua madre è vittima dell’inerzia e delle omissioni del servizio sanitario, e con questa convinzione ha sporto denuncia affinché vengano individuati i responsabili della situazione, nella speranza che la loro devastante vicenda induca i “decisori” a dare la giusta importanza al tema della salute mentale e ai diritti dei pazienti.
La storia di Giovanni e della sua famiglia è un monito per tutti noi. È necessario che le istituzioni si impegnino maggiormente per offrire un sostegno concreto alle persone che soffrono di disagio psichico, e che si dotino di risorse umane adeguate per garantire un’assistenza di qualità. Solo così potremo evitare altre tragedie come quella che ha colpito la famiglia di Giovanni.